Anche gli avvocati possono farsi pubblicità online. A patto che vengano osservate una serie di indicazioni regolamentari orientate a circoscrivere l’attività all’ambito “informativo” e non commerciale, nel rispetto dei principi deontologici. Oltre che della privacy e sicurezza digitale dei clienti.
Il punto di partenza imprescindibile è che l’innovazione tecnologica e la digital transformation hanno avuto, inevitabilmente, un forte impatto anche sulle attività dell’avvocato, generando riflessioni e opinioni contrastanti sui rapporti fra i molteplici possibili utilizzi della tecnologia ed i principi deontologici della professione.
Lo sviluppo tecnologico offre oggi rivoluzionari strumenti di comunicazione che ormai nessun professionista può fare a meno di utilizzare nella sua attività quotidiana. Attraverso le tecnologie è infatti possibile per il professionista generare una vasta rete di relazioni e contatti, aumentando la propria visibilità in un modo che in passato, con l’utilizzo delle tradizionali espressioni informative, non era neanche lontanamente immaginabile.
In tale contesto deve essere dunque letta la graduale rimozione dei previgenti limiti deontologici alla pubblicità informativa dell’attività dell’avvocato, evolvendosi ormai la professione, di pari passo con i cambiamenti sociali, verso assetti organizzativi diversi e campi nuovi. Risulta oggi imprescindibile dunque concepire la comunicazione pubblicitaria come un nuovo valore se non necessario, quantomeno utile, alla promozione della propria credibilità professionale.
Sono molti tuttavia anche gli aspetti problematici che gravitano intorno all’orbita di tali asserzioni, dovendosi tener conto dei nuovi assetti economici della società in cui l’avvocato moderno si trova ad operare, nonché del rispetto dei fondamentali principi deontologici, cardini della professione, quali decoro e dignità professionale, i quali corrono certamente un pericolo di contaminazione a causa della creazione di un regime di spietata concorrenza fra professionisti. Dignità e decoro della professione, che nell’ottica della pubblicità informativa, del resto, sono legati strettamente ad un preciso valore deontologico, quello dell’affidamento della collettività. Gli ampi margini di lettura e di interpretazione che come vedremo offre la normativa in materia, comportano inoltre che, nel caso concreto, non sia sempre possibile stabilire a priori e con certezza quali possano essere le corrette modalità informative da adottare.
Procedendo ad una rapida ricognizione della regolamentazione in materia, bisogna ricordare che l’art. 24, comma 2 della Direttiva 2006/123/CE (c.d. ex Bolkenstein), recepita pedissequamente dal D.lgs. n. 59 del 26 marzo 2010, detta l’obbligo per gli Stati membri di provvedere affinché le informazioni pubblicitarie che emanano dalle professioni regolamentate siano rispettose delle regole e dei principi deontologici.
A seguito poi di varie modifiche ed interventi legislativi (si vedano al riguardo: l’art. 3, comma 5 D.L. n. 138/2011 – c.d. Manovra di Ferragosto – e l’art. 4 del D.P.R. n. 137/2012), oggi la materia è regolata dall’art. 10 della Legge 31 dicembre 2012 n. 247, e dagli art. 17 e 35 del Codice Deontologico Forense, che hanno modificato i previgenti artt. 17 e 17-bis (il quale è stato soppresso).
Al fine dunque di evitare che la nuova disciplina delle informazioni pubblicitarie si trasformi in un caotico far west digitale, si rende opportuno un inquadramento teorico della problematica che eviti sconvenienti degenerazioni.
Partendo da tale presupposto, bisogna innanzitutto precisare che quando si parla di pubblicità in relazione allo svolgimento della professione, si parla di una pubblicità informativa, e non di una pubblicità meramente commerciale. Già da qui, se ne ricava che fermo e saldo deve rimanere il divieto di accaparramento di clientela di cui all’art. 37 del Codice Deontologico Forense. In ogni caso, infatti, il cliente deve essere messo nelle condizioni di compiere scelte libere, scevre da induzioni portate avanti con qualsiasi mezzo.
Informazione sull’esercizio dell’attività professionale
Ai sensi dell’art. 17, comma 2 del Codice Deontologico, l’informazione pubblicitaria resa dall’avvocato, deve essere prima di tutto non ingannevole, e questo a prescindere dallo strumento utilizzato. Dunque, lo scopo deve prevalere sulla forma, non potendo il mercato essere falsato, e non consentendo che ad orientare le scelte degli clienti siano parametri diversi dalla capacità e dalla preparazione professionale dell’avvocato.
Del resto, anche quando si parla di una paventata riduzione dei costi economici, se questo da un lato può essere pur vero e plausibile, non si può però non tener conto anche della riduzione dei costi sociali, con la paradossale conseguenza del probabile aumento del contenzioso. Non solo, altro paradosso che smentisce l’equazione secondo cui a maggiore pubblicità corrispondono minori costi, è che spesso i servizi dei professionisti che utilizzano strumenti pubblicitari risultano più costosi degli altri.
Oltre alla non ingannevolezza, le informazioni devono essere ispirate anche alla non equivocità, veridicità e alla trasparenza. Se i primi due caratteri sono corollari della non ingannevolezza, l’ultimo attiene al contrasto dei fenomeni di pubblicità occulta o comunque subliminale, e dunque alla riconoscibilità diretta della pubblicità come tale. Inoltre, sempre nell’ottica della trasparenza, l’informazione pubblicitaria, oltre che facilmente riconoscibile, deve essere anche verificabile, nonché deve garantire l’indipendenza nello svolgimento delle prestazioni.
Le informazioni diffuse devono poi essere non denigratorie, e tale carattere appare quasi scontato nell’ambito dello svolgimento di un’attività in cui risulta difficile appigliarsi a dei parametri fissi e ben determinati per una valutazione oggettiva della prestazione professionale.
Venendo poi al carattere della non comparabilità delle informazioni pubblicitarie, anche in questo caso bisogna tener conto dell’impossibilità di compiere una valutazione oggettiva della prestazione professionale.
Dovere di corretta informazione:
Venendo poi al contenuto dell’art. 35, esso introduce il Dovere di corretta informazione, specificandone puntualmente il contenuto.
Andando a restringere l’indagine alle finalità della presente Relazione, va rilevato che secondo la previgente disciplina, l’avvocato poteva utilizzare a fini informativi esclusivamente siti web con domini propri senza reindirizzamento a siti di terze parti, ed in ogni caso questi ultimi dovevano essere riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati di cui facesse parte. Tutto ciò era subordinato inoltre ad una preventiva comunicazione al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, concernente la forma e i contenuti del sito.
Questa previsione comportava ad esempio che i professionisti non avrebbero potuto utilizzare i social network a fini informativi sulla propria attività, essendo i profili presenti su questi ultimi parte di domini esterni, appartenenti a soggetti terzi. Rimaneva salvo l’utilizzo dei social a fini personali o familiari, sempre in ogni caso mantenendo una condotta improntata a dignità e decoro.
Il CNF, ha in seguito opportunamente modificato il Codice deontologico forense (Delibera 16A03304, comunicata in G.U. n. 102 del 3 maggio 2016, adottata nella seduta amministrativa del 23 ottobre 2015). Il divieto sopra descritto infatti, appariva ormai anacronistico ed illogico, senza tralasciare il fatto che ingiustificatamente andava a colpire lo strumento (come ad esempio il profilo presente nei social network) e non il contenuto e la sostanza dell’informazione pubblicitaria, che sono gli elementi sottoposti al rispetto dei principi deontologici sopra visti. Bisogna tener presente poi il timore di possibili ulteriori sanzioni da parte dell’A.G.C.M., da sempre portabandiera, a volte anche in modo irrazionale, di una più ampia apertura in materia.
Dunque attualmente l’art. 35, comma 1 del Codice Deontologico Forense, opportunamente introduce una sostanziale libertà dei mezzi e degli strumenti per la diffusione delle informazioni pubblicitarie, pur richiamando il necessario rispetto dei doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, e il riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.
Parallelamente, sono stati modificati il comma 9, che conteneva il divieto sopra detto, e il comma 10, che prevedeva la responsabilità dell’avvocato riguardo al contenuto e alla sicurezza del proprio sito.
Riguardo a quest’ultimo, tuttavia, bisogna precisare che si prevedeva anche che il sito non potesse “contenere riferimenti commerciali o pubblicitari sia mediante l’indicazione diretta che mediante strumenti di collegamento interni o esterni al sito”. Rimane dunque il dubbio se l’inserimento di banner e link di altri operatori commerciali possa stridere o meno con la dignità e il decoro della professione, dubbio che probabilmente potrà essere risolto solamente analizzando il caso concreto e lo sviluppo della prassi applicativa.
In conclusione, la modifica dell’art. 35, pervenuta all’esito di un forte scontro di posizioni e di ideologie, costituisce un passo importante per la modernizzazione della professione, pur allo stesso tempo confermando la necessità di mantenere e di rispettare quel necessario equilibrio etico che deve contraddistinguere la figura e l’attività dell’avvocato.